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Associazione Archès

La tessitura. Una barchetta sulla nave del tempo

di Melissa Clelia Calo’

Qui non vorrei morire dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.

In questi versi di Vittorio Bodini, tratti da “La luna dei Borboni”, un’immagine altamente poetica è quella del nespolo. Come fa la pianta del nespolo a spostarsi, compiendo un movimento ripetuto e continuo? Forse per nespolo è da intendersi il legno dal quale si ricavava la navetta per la tessitura, o nella parola stessa, nespolo, si ricorda la spola, la “barchetta”, che nel solcare le “onde” degli orditi, lascia dietro di sé la “scia” del filo che si srotola e diventa tessuto.

Quel che è certo, è che la tessitrice, come i contadini, le tabaccaie, i pescatori, erano delle figure familiari per il poeta salentino, che lo scorrere del tempo e della storia, economica e sociale, ha consegnato definitivamente all’archivio della memoria.

La tessitura era un’azione complessa perché rispondeva a molteplici bisogni. Ogni donna, all’interno della propria famiglia, era chiamata ad avere competenze tessili per costruire la propria dote e poter contrarre matrimonio. La costituzione del corredo iniziava fin dall’infanzia ed era un processo lungo e faticoso: si tesseva spesso nei ritagli di tempo, dopo aver trascorso una giornata intera lavorando in campagna.

Nel giovedì che precedeva le nozze, la futura sposa, con una bizzarra mostra alla quale era invitato il vicinato, esponeva lenzuola, bisacce, mutandoni e camicie, i quali venivano minuziosamente contati, valutati, soppesati e approvati (o meno) dalla suocera, ed infine registrati in un documento controfirmato dai testimoni di nozze. Non era importante solo il numero dei “panni” ma anche la preziosità delle fibre o meno, la presenza di applicazioni e ricami e le tecniche usate. Tutti questi elementi rimarcavano il prestigio e il benessere economico della famiglia, che aveva messo a disposizione le materie prime e che l’abilità della ragazza aveva poi trasformato in biancheria. Particolarmente ricercato, ad esempio, era il possesso di coperte realizzate con il cosiddetto “sfiocco” che imitava il velluto forse perché la tecnica impiegata non era abbastanza conosciuta e risultava complessa da eseguire.

Da un passato più remoto, poi, ci sono arrivati, sempre attraverso i documenti di dote o i lasciti testamentari, dei lunghi elenchi che hanno dei nomi per noi oggi incomprensibili: fanno riferimento a specifici tipi di tessuti o capi d’abbigliamento che, purtroppo, in frequenti casi, non sappiamo a cosa corrispondano. Certo è che nel passato erano molto diffusi i capi in canapa, lino, cotone, seta e lana.

Abbiamo numerose testimonianze della loro produzione come materie prime ed eravamo in grado di lavorarle trasformandole poi in filato, quello stesso filato con il quale si caricavano le “barchette” del telaio.

Contributo pubblicato sulla rivista “Salve Saluta” (anno III, n. 6 – marzo 2022).

Le foto ritraggono alcuni particolari della mostra sulla tessitura salentina, allestita a Salve presso un ambiente di Palazzo Ramirez. Per informazioni: 349.6384350 (Melissa)