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Associazione Archès

Il diario di Heduiga e Simeone

di Marco Cavalera

Casa dei Pellegrini nei pressi di Tricase

Casa dei Pellegrini, ventisei marzo duemilaetredici.

Aria di primavera, profumo di fresie e narcisi selvatici in fiore. Un mezzo meccanico irrompe su un muretto a secco, lo abbatte inesorabilmente. Un uomo, cappello giallo e scarpe marroni consunte dal tempo, dirige le operazioni. Mario e Antonio, due giovani operai di una ditta di movimento terra, assistono ai lavori. La ruspa avanza nel cortile protetto da un muro imponente. Cede il primo arco d’ingresso che una volta collegava due edifici, identificati da alcuni storici con la casa dei pellegrini in transito verso il Santuario della Madonna di Finibus Terrae e con la dimora del locandiere che dava loro ospitalità. Il terrazzo era utilizzato – in tempi di pace – per essiccare fichi, pomodori e altre prelibatezze della Terra e – in tempi di guerra – come rifugio dei pellegrini e degli abitanti dei paesi viciniori, che salivano sulla liama[1] con una scala di legno di sedici gradini.

Un secondo arco chiudeva a scirocco il complesso e permetteva l’accesso ai giardini di pietra retrostanti, un tempo orto recintato, oggi cumulo di macerie pericolanti, domani mega parcheggio di un ipermercato.

Il gigante di metallo, nel mezzo della sua corsa, si arresta e impatta su una pietra piatta che sembra occludere una grotta.

Il conducente scende dalla ruspa imprecando contro la malasorte, chiede lumi ai colleghi che sembrano più incuriositi dal susseguirsi degli eventi che infastiditi dal fermo dei lavori.

Noncuranti delle invettive di Rocco – il capocantiere che freme di spianare al più presto il terreno su cui sorgerà il grande parcheggio – i due operai riescono a sollevare di qualche centimetro la botola di pietra che pare chiudere un ingresso, quanto basta per ricavare un varco per la discesa all’ipogeo.

Mario non sta nella pelle. “Mena e mmoviteve, ca se vene l’ingegneri ne manna tutti a casa”[2], sbraita invece Rocco u capucantieri[3]. Ma non c’è verso e il buio della cavità attrae Mario molto di più delle “sirene” di Rocco. “Pijeme nu scalandrone”[4], si rivolge Mario al suo giovane collega Antonio, “ca quai truvamu l’acchiatura, diventamu ricchi e lassamu de travajare prima cu murimu pe la fatica”[5].

All’improvviso un raggio di sole fa capolino tra le nubi, irrompe nella grotta con uno spiraglio di luce che squarcia l’ombra. “E che c’è qua sotto, una sepoltura?”, esclama Mario. Lucio, il conducente della pala meccanica, sentendo odore di acchiatura e di pensione anticipata di qualche lustro, si precipita a cercare una lanterna. La trova tra le cianfrusaglie del capocantiere riposte nel vecchio camion parcheggiato sul ciglio della provinciale. Corre affannosamente verso i suoi colleghi che intanto hanno trovato il modo di entrare nella cavità: una vecchia e infracidita scala di legno nascosta tra i rovi dietro la casa del locandiere. Sei metri di profondità separano l’imboccatura dal fondo freddo e umido della caverna. I piedi di Mario e Antonio affondano tra le ossa di piccoli roditori, cocci di terracotta e qualche rifiuto di età moderna. Il sogno dell’acchiatura sembra concretizzarsi quando Antonio, ripulendo con le mani nude uno spesso strato di terriccio depositato sul fondo, mette in luce uno scrigno di metallo, malamente conservato. In superficie si assiste ad un’incredibile scena: il destino ha voluto restituire all’umanità un diario in fogli di pergamena su cui sono annotati due nomi, Heduiga e Simeone.

Non l’acchiatura, quindi, quella che avrebbe permesso a Lucio, Antonio e Mario di andare in pensione prima del tempo, ma un tesoro ancora più prezioso per il valore intrinseco che rappresenta, nelle cui pagine ingiallite si sedimenta il racconto di una storia avvenuta più di 300 anni fa.

Heduiga e Simeone avevano percorso migliaia di chilometri. Dalla fredda terra elvetica erano giunti tra le lussureggianti piane di ulivi secolari del Salento, diretti a Santa Maria di Leuca. Il viaggio era stato estenuante, mesi di tempeste e tante avventure avevano accompagnato i due anziani consorti fino a queste terre sperdute, conosciute per il Santuario della Madonna della Fine della Terra, dispensatrice di grazie e indulgenze ai peccatori.

Dopo aver attraversato l’intero stivale, nel Tacco d’Italia hanno trovato ospitalità inusuale. La stagione estiva al culmine donava una visione giuliva di sconfinati campi di grano e farro mietuto e papaveri rossi come la terra fertile ricca di ossidi di ferro.

L’ultimo tratto di strada, tra Otranto e Tricase, era stato particolarmente difficoltoso a causa di un temporale e di una grandinata molto intensa che li avevano costretti a fermarsi sotto le chiome di una quercia secolare. La notte, di solito, trovavano riparo in alcune strane strutture a falsa cupola realizzate con pietre di calcare, che gli abitanti del luogo chiamavano pajare.

Nelle soste, i due pellegrini si rifocillavano con mandorle e fichi deliziosi. Ignoravano in Elvezia l’esistenza di dessert naturali così prelibati, nutrienti e soprattutto poco costosi.

Giunti quasi alla fine del loro viaggio e attraversato un borgo di nome Tutino, Heduiga e Simeone avevano trovato ospitalità presso una struttura di accoglienza nei pressi della chiesa del Gonfalone, di cui avevano sentito parlare piuttosto bene nel paese vicino.

La casa, immersa in un’isola di lussureggianti querce spinose contornate da lentisco, mirto, calendule ed erba incolta ospitava una decina di pellegrini alla volta. La gestione era affidata ad una famiglia di locandieri del poco distante casale di Lucugnano. Non era visibile dalla strada, ben nascosta all’acuta vista dei briganti. Donato, un uomo di mezza età dalla parlantina fluida e dalla barba folta, aveva accolto i viandanti: giusto il tempo di salutare una coppia di giovani fiamminghi che qui avevano passato la notte. L’essenzialità e la quiete regnavano sovrane. Facevano bella mostra di sé un forno per la cottura del pane, diversi ripostigli in pietra a secco, alti muri di recinzione e alcuni giacigli.

Heduiga e Simeone si dissetavano bevendo acqua fresca, tirata su da una cisterna, e vino offerto generosamente dal locandiere. Il breve soggiorno era stato reso familiare e piacevole dalla gentile accoglienza. Solo una decina di chilometri li separavano ormai dalla meta, alcune migliaia dalla loro Terra di provenienza. Un anziano signore aveva raccontato che sul loro stesso sedile di pietra hanno riposato nobili e clericali di alto lignaggio, aneddoto che non era comunque bastato per far dormire sonni tranquilli ai due compagni di viaggio. Il ronzio delle zanzare e gli squittii dei ratti, infatti, squarciavano il silenzio della notte.

Il giorno successivo Heduiga e Simeone avevano dovuto riprendere il cammino verso il Santuario della Madonna di Finibus Terrae,posto su un promontorio alto dove finisce la Terra e inizia una distesa sconfinata di mare blu cobalto.

Ma, prima di partire, avevano voluto lasciare un dono imperituro alla locanda dei Pellegrini dove erano stati ospitati: un diario di viaggio, su cui avevano annotato la loro esperienza e i ricordi dei luoghi attraversati. Uno scrigno di metallo lo avrebbe messo al sicuro finché, una squadra di operai e un mezzo meccanico del futuro non lo avessero salvato dall’oblio eterno. Ma un bauletto con un memoriale non può opporsi ad un parcheggio per un centro commerciale, nuovo Tempio del consumismo moderno.

Lucio, Rocco, Antonio e Mario riprendono i lavori di sbancamento. L’ingegnere sarà sul cantiere tra un momento.

Casa dei Pellegrini. Particolare arco ingresso

[1] Terrazzo.

[2] «Suvvia, muovetevi che se viene l’ingegnere ci manda tutti a casa».

[3] Il capocantiere.

[4] «Prendimi una scala».

[5] «Che qui troviamo il tesoretto, diventiamo ricchi e lasciamo di lavorare prima di morire per il lavoro».